DHDI


groupe de travail Droits de l'Homme et Dialogue Interculturel

Osservazioni sull'attività di propaganda razzista.

di Emanuela Fronza

pubblicato sulla Rivista internazionale dei diritti dell'uomo, n. 2 1998

Università di Milano

Sommario: 1. Considerazioni preliminari. 2. Il divieto di discriminazione razziale nel diritto internazionale. 3. La penetrazione del diritto internazionale penale nel diritto penale italiano. 4. Il D.L. 122/93. 5. "Discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi": analisi dell'art. 1. 5. (segue) La propaganda razzista come reato di pericolo. 5. (segue) Il bene giuridico tutelato. 6. Razzismo: dalla parola alla nozione. 6. (segue) Racism, racialism, discriminazione razziale. 7. Considerazioni conclusive.


1. Queste pagine tentano di rimeditare criticamente l'ampia discussione che si svolge in diverse sedi sul razzismo. Attualmente le manifestazioni di intolleranza razziale non sono solamente aumentate, ma hanno anche assunto forme diverse, sottili, subdole e sfuggenti. Oggi sembra che i principali termini del razzismo, come l'abbiamo conosciuto fino alla seconda guerra mondiale, siano profondamente mutati. Ed esso, così strutturato e modificato, assume caratteri talmente organici che si può parlare senz'altro di una vera e propria ripresa e di un rinnovamento storico dei movimenti e delle politiche razziste. Ci troviamo, infatti, di fronte a un razzismo, che, così come opera socialmente, non implica affatto una teoria esplicita delle razze umane: esistono, infatti, forme di discriminazione razziale che respingono deliberatamente qualsiasi concezione relativa alle razze umane. Si è verificata, infatti, la cd. debiologizzazione del pensiero razzista (dalla razza alla cultura) e il passaggio dall'affermazione dell'ineguaglianza all'affermazione della differenza assoluta (fra popoli, nazioni, culture e civiltà). E' sorto dunque un nuovo razzismo culturale e differenzialista, che assume il discorso sulla differenza in una logica di ritorsione nei confronti dell'antirazzismo, le cui argomentazioni, basate sulla differenza culturale e sul relativismo, diventano inevitabilmente inefficaci e inattuali. Le manifestazioni di intolleranza razziale, sempre più frequenti, sembrano oggi fondarsi non più su una teoria delle razze, ma sulle rigide definizioni di popoli, nazioni, culture, civiltà e mentalità, che hanno scavato autentici abissi tra gli uomini prontamente sfruttati dal nuovo pensiero razzista-differenzialista. A questo si aggiunge, pertanto, la consapevolezza della necessità di una riforma dell'antirazzismo.

Proprio rispetto all'attività di propaganda razzista, si constata una rinnovata attenzione da parte sia della dottrina sia della giurisprudenza. Quantunque le sentenze in questa materia non siano copiosissime, alcune pronunce della Corte Europea dei diritti dell'uomo e alcune sentenze della Corte di Cassazione ci consentono di svolgere qualche riflessione sull'argomento, contenendo molteplici spunti a riguardo. In generale, esse forniscono l'occasione per tracciare un quadro della legislazione esistente in materia di propaganda razzista. In particolare, poi, in una sentenza della Corte di Cassazione del 1993, troviamo una definizione di razzismo, secondo cui “questo termine indica le dottrine che postulano quale presupposto del divenire storico l'esistenza di razze superiori ed inferiori, le prime destinate al comando, le seconde alla sottomissione”. Questa definizione sarà la base di partenza per sottolineare l'importanza dell'attenzione sui termini e per chiarire il senso scientifico di proposizioni terminologiche quali discriminazione razziale e razzismo, che vengono utilizzate anche nei testi normativi, con un'estensione indefinita. Fare chiarezza terminologica, e quindi concettuale, tra le possibili "attività razziste" servirà ad analizzare le scelte compiute dal nostro legislatore e gli eventuali limiti che esse provocano sul piano dell'applicazione concreta.

Il tema di cui si tratta risulta assai complesso e problematico anche per un altro fondamentale aspetto: in tali casi, infatti, il diritto penale interviene e pone limiti alla libera manifestazione del pensiero. La stessa giurisprudenza, proprio in ragione di questa operazione di bilanciamento già operata in sede legislativa, ribadisce, mettendo così in evidenza il dato che rende i reati di opinione fra i più discussi, che le previsioni normative in materia (legge Scelba n.645/52 e il decreto legge n.122/93) non reprimono la mera enunciazione del pensiero, ma solo le manifestazioni di intolleranza razziale e la professione di ideologie razziali in contrasto con i principi di uguaglianza e di democrazia, che integrano chiaramente violazioni del divieto sancito dal D.L. 122/93. I reati di propaganda razzista sono infatti reati d'opinione che il D.L. 122 costruisce secondo lo schema dei reati di pericolo astratto. Non solo vi è quindi una anticipazione della soglia di punibilità, ma il diritto che si viene a comprimere costituisce un diritto fondamentale, costituzionalmente garantito (art. 21 Cost.), come la libertà di espressione. Per questa ragione i reati di opinione sono fra quei reati su cui grava un'ombra di illegittimità costituzionale per violazione del principio di offensività; ma la punibilità di tali comportamenti avviene in virtù di una operazione di bilanciamento tra interessi essenziali e primari; e proprio la rilevanza di un più generale interesse alla non discriminazione permette in questo caso al nostro legislatore non solo di arretrare la tutela penale a un momento precedente a quello della lesione, ma altresì di limitare una libertà senza dubbio fondamentale, quale la libertà di pensiero.

La nostra analisi si inserisce dunque nel difficile e delicato dibattito sui reati di pericolo, sui limiti penalistici alla libera manifestazione del pensiero (e quindi sul delicato rapporto tra ragion di Stato e sfera delle libertà umane) e sulla compatibilità di siffatte opzioni repressive col principio costituzionale sancito dall'art. 21 della Costituzione; ma si inserisce anche nell'attualissimo e vivo dibattito, che si svolge in sede internazionale intorno ai diritti dell'uomo, e in particolare intorno alla discriminazione razziale (rientrante fra i cd. delicta juris gentium).

2. La nostra discussione, che combina la riflessione filosofica con una sintesi storica e con problemi politici, ha, come è noto, una dimensione internazionale. La discriminazione razziale e l'attività di propaganda razzista non possono essere studiate se non ci si avvale di un approccio interdisciplinare, che tenga comunque presente la natura di queste norme, le quali sono appunto il prodotto della convergenza di due aree giuridiche (il diritto internazionale e il diritto penale), che vengono a creare quella branca del diritto internazionale definita diritto internazionale penale.

Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, si ebbe lo sviluppo di un complesso di istituzioni internazionali e l'adozione di molti strumenti normativi, che, senza essere specificatamente penali, hanno toccato e riadattato in molti punti il sistema penale. Vi è dunque una tensione nuova, di cui non possiamo non tenere conto, tra le coercizioni imposte dagli Stati e l'esigenza di protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà. Tensione nuova, perché si manifesta dall'esterno, sia in senso giuridico sia in senso geografico; ed è in questo "tòpos" che si costituisce un insieme di norme, non penali, né extrapenali, che obbediscono a tutt'altra ispirazione.

E' proprio questa diversità a provocare un'apertura nel campo penale, per cui si può parlare di discriminazione razziale solamente in una prospettiva comparativa e internazionale. Il tipo di interessi offesi, la gravità di queste azioni e la universalità degli interessi lesi spiega perché le norme che disciplinano tale materia non possano essere soltanto le norme nazionali. Ma anzi queste ultime hanno spesso origine per dare attuazione agli obblighi già previsti e assunti a livello internazionale. Sul piano internazionale, la primaria importanza dei valori tutelati fa sì che le norme sui diritti fondamentali, di cui la consuetudine costituisce la fonte principale, siano accettate da tutti gli Stati e abbiano una forza ed un rango superiore rispetto ad altre disposizioni. Ne consegue che anche le norme contro la discriminazione razziale, come ad esempio quelle che vietano l'aggressione, il genocidio, la schiavitù, la tortura, sono parte di quel diritto imperativo e cogente, cui si è dato il nome di ius cogens. È stato così fissato uno "standard internazionale" che gli Stati devono rispettare per non incorrere in una responsabilità internazionale, che può anche assumere forme particolarmente pesanti nel caso di violazioni sistematiche e su larga scala. Il modo in cui queste disposizioni sono formulate (esse ad es., contengono molti termini astratti, definiscono il reato ma non prevedono le sanzioni) e la struttura “piatta” ed “anarchica” della comunità internazionale, rendono necessario, per l'attuazione concreta e per l'irrogazione delle sanzioni penali, il ricorso ai sistemi giuridici interni.

Sta dunque verificandosi, attraverso strutture regionali (Comunità Europee) e strutture di tipo universale (Nazioni Unite), una "internazionalizzazione” del diritto penale interno ed una "internizzazione" del diritto internazionale attraverso un corpo di regole che fissano i suddetti standard. Nondimeno, la penetrazione del diritto internazionale penale nel diritto penale interno, pur con identità di meta e di convergenza di parametri e modelli, conduce a risultati normativi e giurisprudenziali differenti nei singoli Stati.

In questo modo è stato possibile mettere in rilievo le caratteristiche delle norme internazionali penali sulla discriminazione razziale per quanto attiene non al loro modo di creazione, ma al loro valore e contenuto. In forza della interdipendenza tra diritti dell'uomo e diritto penale, sembra utile, per esaminare la normativa italiana, individuare gli strumenti normativi internazionali esistenti in materia. In tali strumenti internazionali occorre distinguere le norme che vietano solamente la discriminazione in generale da quelle che si occupano anche di diffusione di idee o comunque di forme di propaganda razzista.

Fra gli strumenti internazionali che vietano su un piano generale tutte le forme di discriminazione possiamo ricordare la Carta di San Francisco del 26 giugno 1945, istitutiva delle Nazioni Unite (art. 1, terzo comma), la Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948 (art. 19 e art. 29, comma secondo e terzo). Nel 1950, poi, la Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali enuncia all'art. 14 che il "godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione (...)". Altre fonti importanti, tra l'altro equiparati alla Convenzione Europea quanto ad efficacia formale nel nostro ordinamento -legge ordinaria contenente l'ordine di esecuzione-, sono i Patti del 19 dicembre 1966 elaborati dalle Nazioni Unite sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali. In essi, all'art. 2, si afferma che "ciascuno degli Stati si impegna a rispettare e garantire a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio e siano sottoposti alla sua giurisdizione i diritti riconosciuti nel presente Patto senza distinzione alcuna (...)". Il divieto di discriminazione viene poi proclamato dalla Dichiarazione sul progresso sociale e lo sviluppo del 1969 (art. 2 lett.a), dalla Convenzione contro l'apartheid del 1973, dalla Convenzione per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne del 1979, e dalla Dichiarazione sull'eliminazione di tutte le forme di intolleranza e di discriminazione basate sulla religione del 1981. Lanciato in ambito internazionale ed europeo il paradigma dei diritti dell'uomo è accettato anche dall'Atto Unico Europeo, che richiama l'impegno per i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione Europea del 1950. Sulla stessa linea si colloca l'art. F, 2° comma, del Trattato dell'Unione Europea (Maastricht, 7 febbraio 1992), in cui l'Unione si impegna a rispettare i diritti come garantiti dalla Convenzione europea.

Passiamo ora al secondo gruppo di norme, le quali, facendo riferimento a forme particolari di discriminazione razziale, sanciscono la punibilità del semplice incitamento alla discriminazione e della diffusione di idee razziste. Queste disposizioni sono contenute sia negli strumenti normativi di ampia portata, sia in altri tramite i quali la comunità internazionale ha cominciato ad occuparsi di problemi specifici (come appunto la discriminazione razziale o il lavoro).

Tra queste vanno ricordate la Convenzione contro il genocidio del 9 dicembre 1948, che all'art. 3 lett. c) dichiara punibile il diretto e pubblico incitamento a compiere genocidio; il Patto sui diritti civili e politici del 1966, che dopo avere affermato la libertà di opinione (art. 19), vieta qualsiasi appello all'odio nazionale, religioso o razziale che costituisca incitamento alla discriminazione (art. 20, II comma); e infine la Convenzione di New York del 1965 sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale entrata in vigore nel 1969 con la ratifica ad opera di 35 Stati, che costituisce senza dubbio il testo fondamentale per l'oggetto del nostro studio.

Essa presenta un approccio molto elaborato al fenomeno e prevede accanto al principio di non discriminazione, il divieto di propaganda razzista nelle diverse forme dell'incitamento e della diffusione. In effetti, agli artt. 2 lett. d) e 4 lett. a) e b) vengono dichiarati punibili le discriminazioni praticate da singoli individui o gruppi, la diffusione di idee razziste basate sulla superiorità o l'odio razziale, l'incitamento alla discriminazione e le organizzazioni o le attività di propaganda organizzate a questi fini. Pertanto, la Convenzione non solamente impone agli Stati il divieto di discriminazione, ma chiede a questi di adottare anche le misure necessarie a tal fine (art. 2) e di dichiarare punibili siffatti comportamenti (art. 4). La Convenzione istituisce un sistema di garanzia per controllare la "mise en oeuvre" e l'applicazione delle norme, attraverso un Comitato per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (art. 8).

Tirando le fila del discorso sulle fonti di diritto internazionale in materia di diffusione di idee razziste sottolineiamo ancora una volta che la repressione della propaganda razzista investe il diritto alla libera manifestazione delle opinioni personali. Proprio per questo motivo in tutti i testi succitati viene sancito, oltre al principio di non discriminazione, il principio della libertà di espressione in tutte le sue forme.

3. In questo contesto internazionale ed europeo, che definisce in materia di discriminazione razziale un comune standard (assunto come adempimento diistanze di qualità superiore), si inserisce la legislazione antirazzista italiana. Dalla ricognizione compiuta dei testi internazionali non emerge sicuramente una situazione di omogeneità: al territorio nazionale si sovrappone uno "spazio" internazionale, le concezioni giuridiche interne vanno calibrate sul terreno internazionale. Ciò a causa della internazionalizzazione del diritto penale attraverso strutture regionali (Comunità Europee, Consiglio d'Europa) e attraverso strutture di tipo universale, quali le Nazioni Unite. Vedremo dunque nell'analizzare la normativa italiana, che questa apertura in campo penale implica ben più che una comparsa di nuovi luoghi istituzionali e di nuovi testi normativi. La tutela dei diritti dell'uomo ha, infatti, rimarchevoli effetti anche sulle procedure, sul regime delle pene, sulla definizione delle incriminazioni.

Come la maggior parte degli Stati europei anche in Italia il principio di non discriminazione, oltre che nelle norme penali, viene sancito come principio generale nella Costituzione. L'art. 3, infatti, recita che "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali". Tale disposizione assume un ruolo centrale nel controllo di costituzionalità delle leggi e deve essere collegata ad altre due norme costituzionali, ovvero all'art. 2 e all'art. 10, comma 2. La prima di queste disposizioni garantisce il rispetto dei diritti inviolabili in quanto tali ed indipendentemente dalla nazionalità; la seconda assume importanza perchè prevede l'impegno dell'Italia a conformarsi alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.

Date queste basi costituzionali, per arrivare ad una specifica legislazione antirazzista bisogna tuttavia aspettare la L. 645 del 1952 che, dando applicazione alla XII. disposizione transitoria della Costituzione italiana, vieta la “riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista” (art. 1), qualifica i reati di apologia di fascismo (art. 4), di istigazione e reiterazione delle pratiche tipiche e proprie del partito e del regime cessati.

Per dare attuazione alla ricordata Convenzione contro il genocidio del 1948 nel 1967 viene emanata un'altra legge importante (L. 962). Nell'ambito di una serie di disposizioni che puniscono la distruzione parziale o totale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso (art. 1), l'imposizione di marchi o segni distintivi a persone in ragione dell'appartenenza a un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso (art. 6) e perfino il semplice accordo a commettere genocidio (art. 7), la norma più rilevante ai fini della nostra analisi è l'art. 8 che punisce la pubblica istigazione e l'apologia di genocidio.

Occorre poi arrivare al 1975 perché vengano introdotte nuove e importanti discipline in questa materia. Innanzitutto viene data esecuzione alla Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (1965) con la L. 13 ottobre 1975, n. 654, di recente modificata e ampliata dal citato decreto legge del 1993.

La legislazione antirazzista più recente risale pertanto al 1993-1994 e si compendia in due atti: quello, come si è accennato, che modifica la legge del 1975 contro la violenza razziale e quello del 1994 contro la violenza sportiva, che molto spesso si colora di violenza razziale.

E' opportuno tuttavia aggiungere che all'interno del Codice Rocco si trovano molte disposizioni che, pur senza fare espresso e diretto riferimento alla discriminazione razziale, possono essere utilizzate, e nella pratica lo sono state, per contrastare manifestazioni di intolleranza. Ci riferiamo in particolare agli artt. 594-595, che sanzionano l'ingiuria e la diffamazione. A proposito di manifestazioni di intolleranza razziale tramite diffamazione a mezzo stampa va ricordata una sentenza della Corte di Cassazione del 1986, in cui, in occasione della pubblicazione in un quotidiano di una lettera che conteneva proposte aggressive contro la comunità ebraica, la Corte ha ritenuto che il reato di diffamazione a mezzo stampa può essere consumato anche a carico di una collettività. In più, la Suprema Corte afferma che l'offesa non deve essere necessariamente percepita da tutti i componenti del gruppo, ma può esistere anche quando è rivolta a un singolo appartenente alla razza ebraica, dovendosi ritenere il comune interesse della collettività ebraica, offesa nel caso di specie, suscettibile di frazionamento e di considerazione individuale. E ancora, gli artt. 406-407-408, permettono di punire i delitti contro i culti ammessi nello Stato e i reati di vilipendio, gli artt. 410-411 sulla distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere e infine gli artt. 414-415 che vietano l'istigazione a delinquere e a disobbedire alle leggi. Questi reati possono essere puniti indipendentemente dai motivi che li hanno determinati, anche se, e lo vedremo più avanti, costituisce circostanza aggravante il fatto di averli commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso (art. 3 D.L. 122/93).

Ma, come detto, si è dovuto aspettare tempi piuttosto recenti perché l'Italia si dotasse di una legislazione antirazzista esplicita; ciò è avvenuto infatti solo con il D.L. 122/93.

4. Compiuta questa sommaria ricognizione dei testi normativi, concentreremo la nostra attenzione sulla punibilità della propaganda razzista, intesa nella duplice forma dell'incitamento e della diffusione; in particolare sulla professione di ideologie razziste (prevista dall'art. 1 D.L. 122). Già prima della legge del 1975, modificata dal D.L. 122, abbiamo visto che esistevano norme che punivano espressamente l'attività di propaganda razzista. Ci riferiamo, oltre che al citato art. 8 della l. 962/67, che incrimina l'apologia di genocidio, alla l. 645/52, la cui oggettività giuridica coincide nella sostanza con quella del D.L. 122. A tale proposito la Corte di Cassazione nella citata sentenza del 1993 afferma che "la ratio delle due leggi si identifica e le comuni proibizioni si dirigono entrambe ad impedire che le ideologie concernenti il germe della sopraffazione od enunciazioni filosofico-politico sociali (quali il primato della razza, la purezza delle razze) conducano a discriminazioni aberranti, con il pericolo che ne derivi odio, violenza e persecuzione". Ma vi è una differenza tutt'altro che trascurabile: la legge Scelba prevede il ricostituirsi del partito fascista, mentre la legge Mancino tende a impedire attività attinenti alla discriminazione e all'odio razziale.

Nella legge Scelba, che dà attuazione alla XII disposizione transitoria della Costituzione, viene affrontata per la prima volta in maniera organica la repressione delle attività neofasciste. Viene fornita una definizione di partito fascista (art. 1), vengono dichiarate punibili la promozione, l'organizzazione, la direzione e la semplice partecipazione a tale organizzazione (art. 2).

All'art. 5 viene sancita la punibilità di chi, partecipando a pubbliche riunioni, compia manifestazioni proprie del partito fascista o nazista. All'art. 4 si ritrova poi la prima disposizione relativa alla punibilità della diffusione di idee: intitolata apologia di fascismo, questa norma permette di punire tutte le persone che facciano propaganda in favore della riorganizzazione del partito fascista o che pubblicamente esaltino gli esponenti, i principi o metodi del fascismo oppure le sue finalità antidemocratiche. La stessa pena è prevista se il fatto riguarda idee o metodi razzisti. Per questo comportamento l'art. 4 del D.L. 122 ha introdotto una disciplina penale più severa rispetto a quella precedente, prevedendo la pena della reclusione sino a tre anni, sanzione differente e più grave di quella prevista per l'apologia di fascismo.

L'altra legge importante è, come anticipato, la l. 654/75, che nel 1993 è stata modificata (all'art. 3), ampliata e articolata dal D.L. 122, concernente le "misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa", intervenuto in particolare sulla struttura delle fattispecie incriminatrici.

Il D.L. 122 si caratterizza per una tendenza ad ampliare l'area dei comportamenti punibili; tendenza nella quale si inquadra anche l'aspetto repressivo dell'intervento (realizzazione effettiva di atti), diverso da quello preventivo che fonda la sanzionabilità dell'incitamento. E' evidente che la norma realizza in questo modo una tutela non solo preventiva (colpendo l'incitamento a questi atti o alla violenza), ma anche repressiva nei confronti di coloro, che seppure in forma isolata, tengano un comportamento idoneo a porre anche un singolo in una situazione arbitrariamente differenziata. Pertanto, diversamente dalla normativa previgente e in linea con la Convenzione di New York, è possibile reprimere non solo la forma dell'incitamento, ma anche quella della realizzazione effettiva di un comportamento discriminatorio. Esso può manifestarsi tramite un semplice atto, che non è dunque fenomeno diffuso, ma può avere al contrario carattere isolato ed episodico e può essere rivolto anche nei confronti di un solo individuo.

Un'altra innovazione di rilievo consiste nella possibilità di punire gli atti facendo riferimento ai motivi non solo razziali ed etnici, ma anche nazionali e religiosi. Vi è stata una trasposizione a livello di motivi di quel concetto che prima veniva espresso con la formula "perché appartenenti ad un gruppo". In questo modo si consente tanto la punibilità di quelle condotte discriminatorie nei confronti di persone del medesimo gruppo, quanto la punibilità di quegli atteggiamenti di persone della stessa razza, etnia o religione che sono qualificati da una motivazione di intolleranza nei confronti di razze e culture diverse, col rischio che in questa previsione possa essere ricompreso ogni tipo di discorso anche non negativamente valutabile.

Questa ampiezza con cui vengono riformulate alcune delle fattispecie incriminatrici appare per un verso ridimensionata proprio dalla parte rimasta immutata, a prescindere dall'estensione al profilo etnico, della lett. a) di questo articolo, che punisce chi "diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico". Si temeva, infatti, il contrasto con l'art. 21 della Costituzione, che si sarebbe potuto verificare rendendo punibili simili manifestazioni. Il D.L. 122, oltre ad avere sostituito l'art. 3 della l. 654/75, ha introdotto altre novità, quali la possibilità, prevista dall'art. 1 bis, di applicare pene accessorie ai colpevoli dei reati previsti dalla legge n. 654 e da quella contro il genocidio (l. 962/67). La norma in questione prevede, infatti, quattro tipologie di pene accessorie, applicabili discrezionalmente dal giudice, che sono comunque riassumibili in due categorie principali: interdizione e limitazione dell'esercizio di attività e previsione di obblighi di fornire determinate prestazioni. Queste pene accessorie sono state criticate dalla dottrina anche per il loro elevato coefficiente di afflittività e per il loro contenuto altamente infamante e stigmatizzante (si fa riferimento in particolare all'obbligo di prestare attività lavorativa prevista qui proprio come pena accessoria e non come misura alternativa con la funzione inoltre di riaffermare simbolicamente, e in via coattiva attraverso il lavoro, i valori violati dal soggetto).

All'art. 2 è stata introdotta una nuova fattispecie, per cui si punisce "chi, in pubbliche riunioni compie manifestazioni esteriori od ostenta emblemi o simboli proprie delle organizzazioni razziste". Questo reato, tipicamente di opinione, difficilmente si distingue dalla lett. a) del citato art. 1, perché le condotte descritte sembrano ricomprensibili nella diffusione di idee in qualsiasi modo. Il secondo comma dell'art. 2 vieta l'accesso a competizioni agonistiche con quegli stessi emblemi o simboli.

L'art. 3 prevede una circostanza aggravante per tutti i reati commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che abbiano tra i loro scopi le medesime finalità.

L'ispirazione severa e repressiva di queste norme (un altro esempio è costituito dal citato art. 1 bis) emerge anche dall'art. 4 che sottolinea la gravità dell'apologia di idee o metodi razzisti modificando la disciplina prevista nella legge Scelba (645/52) e nella legge Reale (152/75) e prevedendo un trattamento differenziato per questi comportamenti delittuosi rispetto a quello esistente per l'apologia di fascismo. Attraverso questa norma, cioè, è possibile punire proprio la diffusione ideologica posta però sotto forma di apologia attuata in pubblico. Ed è questo requisito, in quanto suscettibile di condurre a una ulteriore accentuazione di quel pericolo diffuso della commissione di reati, che costituisce la ratio dell'incriminazione, a far apparire giustificata la scelta di prevedere per queste ipotesi una sanzione addirittura superiore rispetto a quella stabilita per i fatti consistenti nel divulgare "in qualsiasi modo" idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale.

Le restanti disposizioni di questo decreto riguardano le misure di prevenzione (art. 2, terzo comma), le perquisizioni e i sequestri (art. 5) e alcune misure di carattere processuale relative alla procedibilità (d'ufficio), alla competenza (del Tribunale e non più del pretore), alle ipotesi di arresto in flagranza e alla scelta del rito.

5. La disposizione su cui ci soffermeremo è l'art. 1, che riproduce quasi letteralmente quanto previsto dall'art. 5 della Convenzione di New York del 1965. Quest'ultimo, infatti, enumerava tra le azioni punibili "ogni diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, tutti gli atti di violenza o di provocazione" e infine tutte le organizzazioni e le attività di sostegno apportate a tale attività di propaganda razzista. Pertanto già in questa sede si contempla la punibilità di questi comportamenti e si distingue la diffusione di idee razziste dall'incitamento alla discriminazione razziale, in ragione del fatto che il "legislatore" internazionale ritiene importante combattere il razzismo non solo nella sua fase virulenta (incitamento), ma anche nella sua semplice fase propagatoria (diffusione).

Il termine propaganda arriva dunque a riunire, da una parte, la diffusione di idee e, dall'altra l'incitamento, e diviene il fondamento della condanna generale attuata dagli Stati parti della Convenzione. Entrambe le suddette condotte possono essere infatti ricomprese in quella situazione in cui il soggetto si preoccupa di sottolineare le note favorevoli dei fatti, agevolando la formazione di un giudizio dei destinatari, che conduca ad avere determinate idee di giustificazione o di incoraggiamento rispetto a tutte le forme di odio e di discriminazione razziale (propaganda).

Analizzando la normativa italiana, vediamo che il primo comma dell'art. 1 si riferisce alla discriminazione razziale e punisce la diffusione "in qualsiasi modo di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale, l'incitamento a commettere atti di discriminazione o la commissione di atti di discriminazione". Il secondo comma, parallelamente a quanto disposto per la fattispecie di discriminazione razziale, incrimina il comportamento di "incitamento alla violenza o la commissione di violenza o di atti di provocazione alla violenza".

Infine, il terzo comma dell'art. 1, con una notevole estensione sotto il profilo delle figure associative, vieta poi "ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (...)".In questa disposizione si parla pertanto di incitamento alla discriminazione, formula ancora più ampia rispetto agli atti discriminatori. E' intuitivo che questa scelta normativa trova fondamento nella struttura dell'associazione il cui programma deve essere ampio e indeterminato.

Anche quest'ultimo comma è caratterizzato dall'estensione della sfera di punibilità non solo sotto il profilo degli scopi, ma anche della struttura dell'ente associativo che può essere addirittura un movimento o un gruppo. L'estensione della punibilità anche a strutture quali i movimenti (in cui manca un'organizzazione stabile) suscita numerose perplessità: escluso, infatti, il profilo organizzativo dell'associazione, la differenza tra il movimento e quella del mero accordo diviene evanescente, introducendo così una deroga ingiustificata al disposto generale dell'art. 115 c.p..

Il nostro legislatore ha dunque distinto due categorie di condotte e di atti. Questi ultimi, atti di discriminazione, di violenza e di provocazione ad essa sono punibili se commessi "per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi", ma per il reato di cui alla lettera b) la pena prevista è più grave.

5. (segue). La norma in discorso e che punisce per l'appunto l'attività di propaganda razzista è costruita secondo la tecnica di tipizzazione normativa dei reati di pericolo. Beni di primaria importanza, socialmente individuati e di struttura sovraindividuale, quale l'ordine pubblico, inducono il legislatore ad optare per questo schema di tutela, che consente una protezione adeguata attraverso l'arretramento della normale soglia di punibilità e tramite la pretesa di generale osservanza di regole di condotta idonee ad evitare la lesione del bene; il modello prescelto da questo provvedimento è quello del pericolo astratto, che, come noto, si distingue dall'altro modello del pericolo concreto. Il ricorso allo schema del pericolo astratto appare quasi obbligatorio nelle disposizioni che, come queste, tipizzano fatti pericolosi per interessi sovraindividuali, e che raggiungono un livello di concretezza di pericolo per il bene solo se realizzate in maniera seriale e cumulativa.

Nel pericolo astratto è pertanto lo stesso legislatore a fissare (a priori) la condotta astrattamente pericolosa con una descrizione tassativa e diretta, senza richiedere poi che si accerti caso per caso il verificarsi di un danno o di un concreto pericolo di danno.

La situazione di pericolo non viene inserita tra i requisiti della fattispecie, la quale si limita a descrivere una condotta alla quale "generalmente", sul fondamento di una regola di esperienza, si accompagna un concreto pericolo. Di conseguenza, una volta accertata la conformità della condotta concreta allo schema legale formalmente descrittivo della pericolosità tipizzata, il giudice è dispensato dallo svolgere ulteriori indagini.

Il giudizio astratto sarà non falso, ma sicuramente parziale, perché prende in considerazione solo alcune delle qualità, per cui si corre il rischio che tale giudizio possa, se i dati non presi in considerazione sono dotati di rilevanza decisiva, non coincidere col pericolo in concreto.

Specialmente di fronte a fattispecie legali a carattere fortemente ideologico, può tuttavia accadere che, nelle ipotesi concrete alla realizzazione dell'azione vietata non si accompagni quel pericolo che si vuole impedire, col rischio di reprimere la mera disobbedienza a un precetto penale senza che vi sia un'effettiva esposizione a pericolo del bene protetto, finendo col disattendere il principio di necessaria lesività. La tutela viene anticipata a un momento talmente remoto per cui l'essenza di questi illeciti, e ci riferiamo in particolare al reato di diffusione di idee, potrebbe esaurirsi nel contrasto di valori di cui è portatore il discorso incriminato e l'ordinamento penale. Ciò che rileva non è la violenza astratta, per cui dal divieto di azione discriminatoria non è desumibile il divieto automatico dell'idea di discriminazione.

Queste perplessità che sorgono su un piano generale rispetto al pericolo astratto, aumentano se si riflette sul fatto che il nostro legislatore, nelle disposizioni esaminate, ritaglia la condotta punibile da un diritto quale la libera manifestazione del pensiero. L'esigenza di attribuire al reato un contenuto concretamente pericoloso è meno eludibile proprio perché l'incriminazione interferisce con l'esercizio di una libertà politica fondamentale.

Con riguardo a tale ipotesi la dottrina è concorde: la punizione potrà essere giustificata in base a una operazione di bilanciamento di interessi costituzionali; ma occorre tenere presente che la complessità del giudizio di bilanciamento tra valori contrapposti, da cui dipende la definitiva valutazione di legittimità o illegittimità costituzionale, richiede non solo che la fattispecie sia finalizzata alla protezione di un bene di rilievo costituzionale, ma anche di accertare l'effettiva potenzialità lesiva della forma comportamentale, di per sé riconducibile all'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito.

Il quid pluris che può giustificare l'incriminazione deve radicarsi in un complesso integrato di circostanze, che facciano apparire le modalità concrete della propaganda razzista come non solo fuori dalle pur amplissime opportunità di diffusione che sono intrinseche e coessenziali al profilo costituzionale della libertà di espressione, ma altresì idonee a determinare nel contesto considerato un pericolo diffuso di corrispondenti reati. Sia la dottrina sia la giurisprudenza, sotto la spinta della duplice esigenza di riscattare i reati di opinione da forti dubbi di illegittimità in rapporto alla libertà di espressione e di conferire maggiore rilievo al principio di offensività, richiedono una relazione di pericolo concreta, attraverso una specifica idoneità della condotta alla realizzazione dei reati. A tale proposito, sembra interessante riportare una sentenza del 1985 in cui il momento della tutela sembra davvero essere stato riportato a un stadio troppo avanzato. La sentenza della Cassazione cui ci si riferisce fa riflettere sul fatto che, nonostante l'importanza dell'interesse tutelato, una soglia minima di idoneità istigatoria dovrebbe essere sempre richiesta. In questo caso, infatti, durante una partita di basket tra Emerson Varese e Makabi Tel Aviv, alcuni tifosi locali, che furono poi condannati per apologia di genocidio, inscenarono una grossolana manifestazione di ostilità razzista inalberando striscioni con scritte antiebraiche e scandendo slogan quali "Hitler l'ha insegnato, uccidere un ebreo non è reato", "Mathausen reggia degli ebrei". In tale pronuncia la Corte si discosta dall'interpretazione restrittiva che precedentemente dava in materia di apologia, affermando che l'idoneità della condotta non consiste in una vis istigativa, ossia nel generare un probabile contagio di idee e di propositi genocidiari, ma in quella strutturalmente più semplice di "manifestare l'incondizionato plauso per forme ben identificate di fatti di genocidio".

La relazione di pericolosità, in passato, veniva a identificarsi in una accezione concreta. L'elaborazione più recente sembra invece essere orientata verso un superamento della dicotomia pericolo astratto/concreto per concentrare l'attenzione sulla continuità delle polemiche relative alle due categorie, riconsiderazione, questa, che non conduce d'altro canto a una automatica rivalutazione delle due corrispondenti tipologie. Piuttosto, e limitandoci al nostro caso, si intende sottolineare che nei casi in cui la natura dell'offesa imponga l'utilizzo del modello del pericolo astratto, la pericolosità deve riflettere una valutazione politico legislativa dell'idoneità di un dato comportamento a produrre un certo risultato, empiricamente verificabile.

Superato allora il problema della legittimità del pericolo astratto, permane quello della valutazione. Quest'ultima dovrebbe indicare a che punto la singola condotta idealmente lesiva del "bene intermedio a carattere immateriale" raggiunge il disvalore sufficiente per giustificare le incriminazioni. Non è questa la sede adeguata per richiamare la problematica della qualificazione gnoseologica del pericolo, oggetto di ampio dibattito nell'ambito della dottrina tradizionale; riteniamo, tuttavia, di poter acquisire la nozione di pericolo come giudizio di relazione tra un'entità antecedente e un'altra futura. Il pericolo può pertanto essere definito come la probabilità del verificarsi di un danno a beni giuridicamente tutelati; è dunque un concetto normativo, consistente in un giudizio ex ante secondo la miglior scienza ed esperienza del momento storico che ci porta a dire che, in casi simili a quello in esame, il bene tutelato viene leso. L'accertamento della concreta messa in pericolo diviene più difficile di fronte a questi reati in cui la situazione pericolosa non è apprezzabile sul piano delle scienze esatte. L'oggetto dell'analisi, nei reati contro l'ordine pubblico, diviene la realtà socio-politica, con la conseguenza che si verifica l'abbandono del terreno della causalità materiale per finire in quello della causalità psicologica. Le migliori scienze per l'accertamento del pericolo saranno non più quelle esatte, ma le scienze sociali, la psicologia, le scienze dell'organizzazione.

Ora, scartata l'idea di una rinuncia a forme di tutela anticipata, vediamo tuttavia che la norma sul divieto di propaganda razzista solleva ulteriori perplessità. Essa, infatti, è talmente mal formulata che può nella realtà trasformarsi in pericolo presunto, divenendo così un possibile strumento eversivo della regola che il reato è aggressione del bene con una inammissibile limitazione di una libertà costituzionalmente garantita. Secondo il suo tenore letterale, la previsione incriminatrice risulta applicabile anche a condotte che né ledono né pongono in pericolo in modo apprezzabile gli interessi la cui tutela costituisce la ragion d'essere dell'incriminazione. Alla difficoltà della valutazione della pericolosità in concreto si somma dunque la questione di quale significato debba attribuirsi a formule tanto vaghe: ad es., l'incitamento in che cosa si differenzia dagli "atti di provocazione alla violenza"? Entrambi sembrano infatti riconducibili a un comportamento volto a indurre terze persone alla realizzazione in concreto di fatti criminosi violenti.

E ancora il D.L. 122, come d'altronde la Convenzione delle Nazioni Unite, punisce la diffusione di idee "in qualsiasi modo" essa avvenga. Il fatto di diffondere (che equivale a divulgare) significa fare in modo che le idee siano portate a conoscenza di un numero indeterminato di persone, le quali siano state poste in grado di apprenderne gli elementi essenziali, ma è indifferente il mezzo con cui esso è compiuto.

Elementi costitutivi divengono quindi la pubblicità della condotta, il numero indefinito di persone che ne viene a conoscenza, ma anche il contenuto delle idee manifestate. Oggetto della diffusione diventano idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, termini questi che a causa della loro estensione sono in grado di ricomprendere discorsi perfino di antropologia culturale. La norma, così formulata, investe completamente la dimensione dialogica e concettuale del diritto di libera manifestazione del pensiero che necessariamente comprende la comunicazione di processi intellettivi e risulta connessa all'idea di diffusione.

Se è vero che, con le parole della Corte Europea dei diritti dell'uomo, "la libertà di espressione pur essendo una delle condizioni di base per il progresso delle società democratiche per lo sviluppo di ciascun individuo, non è una libertà assoluta", è altresì vero che essa può essere sottoposta solamente a "formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie in una società democratica" (art. 10 Conv. Europea). Gli Stati hanno un certo margine di apprezzamento per giudicare la necessità di un'ingerenza nell'esercizio della libertà di espressione, ma esso va di pari passo con un'opera di supervisione della Corte europea dei diritti dell'uomo, che dovrà essere severa nell'accertare se le limitazioni a tale libertà siano previste dalla legge, se mirino ad un fine legittimo e se sono necessarie in una società democratica. In questo senso appare che oggi il carattere transnazionale dei diritti dell'uomo vulneri ed indebolisca l'autorità statale e la sua capacità di assumere decisioni legittime sul piano giudiziario e legislativo.

Anche per quanto riguarda l'estensione di tale diritto si può fare riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che precisa via via il contenuto della garanzia prevista dagli articoli della Convenzione (artt. 10, 14, 17). La libertà di espressione non ricomprende solo le parole, ma anche le immagini o le azioni che intendono esprimere un'idea o un'informazione. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero protegge anche "quelle idee o quelle informazioni che urtano o inquietano lo Stato" e ciò a prescindere dal mezzo di diffusione delle opinioni (stampa, radio, pubblicazione, pubblicità). Sempre nelle pronunce della Corte europea si afferma che "chiunque esercita la libertà di espressione assume dei doveri e delle responsabilità che dipendono dalla situazione e dal tipo di procedimento tecnico utilizzato".

Le osservazioni compiute, il riferimento alla normativa e alla giurisprudenza europea, aiutano a individuare gli ambiti di estrinsecazione e le ipotesi di limitazione della libertà di espressione; e proprio alla luce di quanto detto, e si tiene a ribadirlo, non ogni manifestazione di idee, anche se il contenuto può essere considerato "razzista", può essere reato, in quanto solo la concreta offensività riesce a superare le garanzie poste dal sistema di libertà costituzionale. Come afferma la Corte di Cassazione nella più volte citata sentenza del 1993, le leggi contro la propaganda razzista "si dirigono non verso la limitazione della libera manifestazione del pensiero tesa all'esaltazione ed alla sottovalutazione delle varie razze per le loro significatività derivanti da elementi esteriori, biologici (...). Tale esternazione in sé e per sé non è vietata se correlata a referenti antropologici, biologici e culturali, e parimenti è consentito manifestare la propria opinione sull'immigrazione (...). Ciò che si vuole impedire è che ideologie contenenti il germe della sopraffazione od enunciazioni filosofico-politico-sociali conducano a discriminazioni aberranti col pericolo che ne derivi odio, violenza e persecuzione". La speciale pericolosità dei fatti di espressione non può essere ricondotta esclusivamente alla forza persuasiva delle manifestazioni o all'elemento della pubblicità o al contenuto delle idee manifestate senza che si attribuisca alcun rilievo all'aspetto fondamentale, ossia alle modalità di aggressione.

Diviene, quindi, decisivo soffermarsi non tanto sui contenuti, ma sui modi con cui tale azione verbale può avvenire. Dovremo valutare di volta in volta la posizione di chi parla (se ricopre o meno una carica istituzionale), il luogo, lo strumento di comunicazione prescelto (espressione orale, scritta, diffusa tramite televisione), concentrando perciò l'attenzione non tanto sul cosa verrà detto ma sul come. Il tempo e il luogo dell'espressione, il modo conforme alle regole del gioco democratico saranno determinanti per valutare anche l'eventuale idoneità dei comportamenti a creare discriminazioni aberranti col pericolo che ne derivi odio, violenza e persecuzione. Prendendo in esame la giurisprudenza nazionale ed europea emerge con evidenza l'importanza della possibilità di valutare la situazione di pericolo nel caso concreto. Stabilire, infatti, a priori i limiti della libertà di pensiero sembra davvero impossibile, per cui è essenziale, come detto, tenere in considerazione il tipo di espressione (politica, commerciale, artistica), il mezzo con cui avviene (personale, stampa, o televisione), il pubblico a cui il messaggio è destinato (adulti, bambini, pubblico esteso o specializzato). Pertanto, e per concludere il discorso sulla strutturazione di queste fattispecie come fattispecie di pericolo astratto, ci sembrerebbe opportuno, de jure condendo, utilizzare per questi reati lo schema del pericolo concreto, che permette di valutare l'azione nel singolo contesto e di valutare quindi se nel caso concreto il bene giuridico ha corso un effettivo pericolo. Questa convinzione, che nasce dalla riflessione sul fatto che il diritto che viene ad essere limitato è il diritto alla libera manifestazione del pensiero, può essere rafforzata se si richiamano alcune situazioni che la giurisprudenza si è trovata ad affrontare. Pensiamo al noto caso Jersild, in cui un giornalista, insieme ad un gruppo di nazi-skin da lui intervistati, era stato condannato in Danimarca per diffusione di idee razziste ai sensi dell'art. 266 c.p. danese. Il sign. Jersild, però, aveva fatto ricorso davanti alla Corte Europea dei diritti dell'uomo lamentando una violazione dell'art. 10 della Convenzione Europea che tutela la libertà di espressione. Proprio questa sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo permette di mostrare e chiarire il nostro ragionamento sulla necessità dell'utilizzo dello schema del pericolo concreto. Ciò che ci preme sottolineare è come per la Corte sia stato decisivo verificare l'esistenza di una situazione di pericolo nel caso concreto, "consideré dans son ensemble". Per valutare la necessità della limitazione della libertà di espressione, infatti, la stessa Corte ha detto che doveva esaminare "la manière dont le sujet des blousons verts a été préparé, sa teneur, le contexte dans lequel il a été diffusé et le but de l'émission". E infatti, ad avviso della Corte, l'inchiesta del sign. Jersild non perseguiva l'obiettivo di propagandare idee razziste per due ragioni: innanzitutto perché era destinata a un pubblico informato e critico; in secondo luogo per il fatto che il giornalista non aveva proferito alcuna dichiarazione razzista, ma aveva solo portato dinanzi all'opinione pubblica un oggetto di discussione di interesse generale; la Corte di Strasburgo ha valutato dunque, in questo caso, l'ingerenza dello Stato non necessaria in una società democratica, rinvenendo così una violazione dell'art. 10 della Convenzione Europea.

5. (segue). Le critiche in termini di perdita di garanzie, sollevate rispetto alla strutturazione delle fattispecie, sono ulteriormente avallate dall'aver individuato il bene giuridico nell'ordine pubblico e nel vedere realizzata la sua lesione addirittura tramite i reati di opinione, tradizionalmente inquadrati nei reati contro l'ordine pubblico. Per spiegare questo concetto la dottrina ha messo a punto una chiave di tutela dell'ordine pubblico che può ormai considerarsi classica; si tratta, come si sa, della distinzione di fondo tra ordine pubblico "ideale" o "normativo" e ordine pubblico "materiale" o empirico". Il primo va inteso come sistema di principi e valori immanenti all'ordinamento, ai quali dovrebbe potersi riconoscere una consistenza assoluta e suscettibile pertanto di essere offeso mediante la semplice manifestazione del dissenso politico-ideologico.

L'ordine pubblico in senso materiale viene spiegato invece in termini di pacifica convivenza sociale, risultante da una componente oggettiva di effettiva condizione di pace pubblica e da una corrispondente componente soggettiva di sentimento collettivo di sicurezza. Le condotte incriminate in queste norme sono offensive dell'ordine in senso materiale; ma ciò non risolve il "vizio" delle fattispecie in esame, ovvero la genericità e l'inafferrabilità del bene giuridico. Le forme di aggressione e lo stesso bene giuridico che viene aggredito possono essere individuabili attraverso un'operazione ermeneutica, ma l'afferrabilità è presupposto essenziale perché le forme dell'aggressione siano scolpite dal legislatore o ricavabili dall'interprete con un elevato grado di certezza.

Sottolineare l'esigenza che l'incriminazione tuteli beni afferrabili non significa affatto affermare che il diritto penale possa proteggere solo beni materiali o non possa tutelare interessi solidaristici. Da queste ultime precisazioni emerge però che è compito del legislatore, allo scopo di rendere operanti, in termini corretti, queste previsioni normative, individuare un bene sufficientemente intelligibile e soprattutto effettivamente offendibile.

Diversamente, il carattere rarefatto e astratto del bene giuridico, che risponde senza dubbio a una esigenza di politica criminale, può condurre alla rinuncia al principio di offensività e al distacco da presupposti oggettivi, che aumenta se si considera la natura di questi reati come reati di mera condotta, in cui manca una considerazione sull'evento. Per di più proprio perché reati contro l'ordine pubblico, e in particolare reati di opinione, è possibile produrre un'anomalia non meno inquietante dell'illegittimità costituzionale, che consiste nell'annullamento della distanza prospettica tra l'oggetto e la ratio dell'incriminazione tanto più che il concetto di ordine pubblico, "proteiforme ed inafferrabile" già nel codice Rocco, assume maggiore genericità nei provvedimenti emergenziali. Ribadire l'origine governativa del D.L. 122 chiarisce l'origine di molte delle ambiguità e distorsioni che ritroviamo nel meccanismo punitivo, con un inevitabile cedimento sul piano delle garanzie, della tassatività e della concreta offensività. Un fatto carente di tassatività può portare con sé il rischio di penalizzare in realtà un modo di esternazione della personalità, garantito dall'art. 21 Cost.. Il bene giuridico che si vuole tutelare con queste norme è un bene, abbiamo detto, sovraindividuale e non materiale; ma questo non significa che si possa sacrificare il principio di materialità, il quale richiede in ogni caso, attraverso elementi di struttura della tipicità (condotta, evento, causalità), di valorizzare gli aspetti materiali del reato, garantendo la finalità politico-criminale contenuta nel concetto liberale del bene giuridico e nell'idea di un diritto penale del fatto anziché dell'autore. Nell'ambito di una valutazione di sintesi del significato della teoria del bene giuridico, si deve dunque sottolineare la sua funzione critica di orientamento e di limite della politica criminale. Il rischio dell'esaltazione della funzione di orientamento del sistema penale è sicuramente l'effetto, se non anche l'intento latente, di una simile normativa.

Constatata l'insufficienza dell'intervento normativo, si ritiene che un primo mutamento opportuno possa partire proprio dalla riflessione sul bene giuridico, rafforzando la sua capacità di rendimento rispetto ai beni sovraindividuali e facendo venir meno la sua genericità che rischia di compromettere la funzione garantista che gli è propria.

L'attenzione sul bene giuridico ha infatti una potenzialità sovversiva, rispetto alla immutabilità dei valori tutelati; negarla alla radice elimina ogni possibilità di mutamento.

Riflettendo sull'opportunità di assumere l'ordine pubblico quale autonomo oggetto di tutela e quale "limite problematico" alla libertà di pensiero, ci accorgiamo di come in realtà le manifestazioni razziste non pongano in discussione un determinato regime o assetto politico. Esse rappresentano la più totale negazione della personalità dell'uomo come valore in sé, come soggetto. La Costituzione pone la personalità dell'uomo (art. 2) e la sua pari dignità sociale (art. 3) come principi base, per cui sembra porre un limite insuperabile alla possibilità di attuare comportamenti suscettibili di creare un contrasto con quei valori; essa si fonda sul primato della persona umana e funzionalizza le componenti solidaristico-sociali e la tutela dei beni giuridici alla salvaguardia della dignità umana.

Ogni discriminazione razziale, sia sotto forma di opinione, di incitamento o di atto, offende la persona e la sua dignità direttamente e prima di ogni altra cosa. Le tipologie di aggressione contro l'essere umano appartengono alle cd. variabili storiche del diritto penale, perché storicamente condizionate, le quali continuano a moltiplicarsi, provocando l'emergere di nuovi beni. Nella nostra epoca, quindi, parlare di reati che offendono la persona e la sua dignità (situazione che certamente si verifica con le manifestazioni di tipo razzista) implica una riflessione sulla necessità di apprestare tutela alla persona umana anche contro le nuove e raffinate forme di aggressione. Il D.L. 122 si pone in questa prospettiva, nel senso di dare una risposta a esigenze che nascono appunto da nuove e gravi forme di aggressione in un modo, però, che abbiamo visto non attuale, né attualizzato e dunque inefficace.

In forza del fatto che le norme non descrivono i beni giuridici tutelati, ma solo i fatti ritenuti offensivi, pensiamo che sia possibile interpretare (già adesso), e in futuro inserire, i nuovi reati di propaganda razzista tra i delitti contro l'essere umano. L'esigenza di un adeguamento costante nel tempo renderà la Costituzione una Grundnorm elastica, in grado di essere riflesso giuridico di un assetto sociale in evoluzione; solo così, cioè con un diritto penale costituzionalmente orientato, che si collochi in una prospettiva diacronica, si potranno individuare nuovi beni.

La proposta del superamento dell'oggetto giuridico ordine pubblico mediante una diversa interpretazione de lege lata delle norme, che vietano la propaganda razzista, in chiave di disposizioni a tutela dell'essere umano, sembra essere coerente anche con la natura di queste ultime appartenenti alla cd. "galassia dei diritti dell'uomo". Ma cambiare nome al bene tutelato non è certo sufficiente; occorrerà rimisurare le fattispecie con il nuovo bene essere umano, consentendo così più che una migliore legittimazione della legislazione esistente una operazione selettiva, di fronte al caso concreto, delle manifestazioni punibili. Sul piano pratico la tutela della persona non pone, proprio per la caratteristica intrinseca del bene, quelle perplessità di congruenza al modello solidaristico della nostra Costituzione. Questa nuova interpretazione dell'oggettività giuridica potrebbe, quindi, meglio giustificare la scelta di una forma di tutela così arretrata, senza impedire, proprio per l'importanza del bene (essere umano), il ricorso a un diritto penale preventivo incentrato sui delitti di pericolo concreto. E ciò non lascerebbe quel dubbio che la tutela della persona sia strumentale a quella dell'ordine pubblico e non viceversa.

Lo scopo dello strumento penale, infatti, dovrebbe essere l'uomo; ma questo assunto non sembra essere confermato nè dall'intepretazione attualmente data a queste norme, il cui bene giuridico continua a essere individuato nell'ordine pubblico, nè dal diritto dell'emergenza dove spesso, secondo l'intenzione del legislatore, la salvezza e il solo bene politico dello Stato diventano la ratio delle stesse disposizioni, a cui vanno piegati perfino i principi generali di diritto penale. Approvato in un clima di forti tensioni, questo decreto costituisce pertanto un classico esempio di legislazione di emergenza, di legislazione emotiva ed impulsiva che cerca di dare risposta col diritto penale a un problema forte e riemergente quale la discriminazione razziale.

Negli Stati nascono talvolta problemi gravi o conflitti che possono produrre ferite profonde nel tessuto civile e allora, per rafforzare le consuetudini democratiche, la via semplificatoria è quella penalistica. Nel nostro caso per combattere la discriminazione razziale si è sviluppata una soluzione giuridica che può essere altrettanto violenta. Le norme del D.L. 122 sulla propaganda razzista sono per alcuni aspetti violente e pericolose quanto le azioni che si vogliono punire. L'intervento punitivo sembra per lo più giustificato dall'opportunità politica, per cui al rispetto dei mezzi e dei vincoli garantistici si sostituisce il criterio pragmatico dei fini (la lotta contro il razzismo).

5. Si spera che la presente analisi abbia chiarito alcuni dei punti nodali relativi alla punibilità della propaganda razzista. Più volte abbiamo evidenziato l'apertura prodottasi nel campo penale e più volte abbiamo sottolineato l'esigenza di una forma storica del diritto penale; questo per evitare che il diritto assuma una forma rigida, o mitica, in cui è assente quell'importante operazione di storicizzazione delle norme. L'esempio costituito dalla legislazione antirazzista del 1993 e la spirale creatasi tra razzismo e antirazzismo costituisce, a nostro avviso e per alcuni aspetti, un esempio attuale della forma mitica del diritto. In primis rispetto al bene che si considera aggredito, e in secondo luogo per i termini e le definizioni utilizzati nelle norme. Dopo aver sostenuto l'opportunità di individuare il bene giuridico nell'essere umano, riteniamo che l'analisi semantica possa servire a individuare le ragioni delle ambiguità presenti nel D.L. 122. Ambiguità che derivano e dall'origine di queste norme, ovvero il sistema di tutela astratto dei diritti dell'uomo, e dalla natura emergenziale del provvedimento, in cui le disposizioni hanno forti connotazioni emotive più che descrittive.

La stessa Corte di Cassazione nella più volte richiamata sentenza del 1993, ci dà l'occasione per compiere una riflessione linguistica: essa infatti, chiarendo la ratio della legge Scelba e di quella Mancino, definisce il razzismo come nozione che si impernia su rapporti caratterizzati da comando e sottomissione, da superiorità di una razza e inferiorità di un'altra.

E' utile cercare di chiarire il senso scientifico, diverso da quello comune, di razzismo e di discriminazione razziale. Fare uso di significanti che hanno significato comune è inevitabile; ma l'impiego delle parole nei provvedimenti normativi, specialmente in quelli di carattere penale, richiede una specificazione o comunque una definizione che riempia di contenuto questi stessi significanti. La legge italiana è priva di una definizione di discriminazione razziale, per cui è necessario rifarsi a quella fornita dalla Convenzione delle Nazioni Unite. Nelle norme e nello stesso titolo del decreto vengono impiegati termini forti quanto a valore evocativo e simbolico (basti pensare a odio, motivi etnici), ma privi di una reale efficacia descrittiva. Di modo che si finisce con il legittimare la definizione, di estensione indefinita, più diffusa e conosciuta dalla pubblica opinione. E questo in linea con la principale preoccupazione di questa legge, ossia quella di rispondere a bisogni di sicurezza sociale: i veri destinatari di tali norme non sono dunque solo gli autori di queste azioni, ma quanto meno anche la pubblica opinione.

6. (segue). Occorrerà, quindi, all'interno di questi indistinti e globali fenomeni, proporre talune distinzioni su cui vi è un relativo consenso nel campo delle scienze sociali. Le scienze empiriche mostrano al legislatore le esigenze concrete, permettendo così di legiferare in base a valori e forme di manifestazione dei fenomeni non sganciate dal contesto storico-sociale. Distinguiamo dunque tre tipi di "tensioni razziali" in cui è possibile far confluire la maggior parte dei discorsi, delle posizioni, delle attitudini e dei comportamenti qualificati come razzisti: il razzismo ideologia (racism), il razzismo pregiudizio (racialism) e il razzismo come pratica discriminatoria.

Il primo, il razzismo come "sistema ideologico esplicito", è il razzismo come dottrina, come concezione del mondo, come visione della storia e della filosofia. Esso fa riferimento a un sistema di rappresentazioni e di giudizi formulati sulla base di tre enunciati principali corrispondenti a tre tesi distinte e correlate: il determinismo biologico, il postulato dell'eredità bioculturale differenziale e l'enunciato secondo cui le differenze tra gruppi razzialmente definiti devono essere interpretate come relazioni di inferiorità/superiorità, ovvero di ineguaglianza. A ciò, solitamente, si aggiunge il presupposto che esistano realmente razze distinte.

Il secondo, il razzismo opinione o pregiudizio razziale, si concreta in atteggiamenti, disposizioni o opinioni/credenze, e rientra dunque nello studio degli atteggiamenti, venendo a ricomprendere quei comportamenti che si manifestano come "stati d'animo verso un determinato valore" o come modo in cui un individuo si colloca davanti a un oggetto di valore.

L'ultimo tipo di tensione razziale individuata è il razzismo discriminazione o discriminazione razziale che si estrinseca come comportamento collettivo misurabile, osservabile e legato a certi modi di funzionamento sociale. Esso si produce solamente quando rifiutiamo agli individui o ai gruppi umani quella eguaglianza di trattamento a cui hanno diritto di aspirare, sulla base di criteri di appartenenza razziale/etnica o di origine etnica presunta.

Queste distinzioni formali mettono in evidenza che alcuni comportamenti quali le pratiche discriminatorie (atti discriminatori) sono assai diversi dalle forme di legittimazione ideologica e dai semplici atteggiamenti (pregiudizio razziale o razzismo opinione). Nel D.L. 122 vediamo invece che la propaganda (nella duplice forma della diffusione e dell'incitamento) è punita allo stesso modo degli atti. Razzismo opinione e razzismo come pratica discriminatoria vengono dunque equiparati. E ancora il titolo del provvedimento è "misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa"; ma il termine discriminazione, come visto, non sarebbe utilizzabile per descrivere il razzismo ideologia (racism) e il razzismo opinione.

La prima difficoltà deriva allora dal fatto che i termini razzismo e discriminazione razziale vengono impiegati anche nei testi normativi per riunire e punire fenomeni che abbiamo visto essere eterogenei. Termini, quali etnico, razziale o ancora odio, superiorità, e poi ancora discriminazione e atti discriminatori, e figure quali associazione, movimento, gruppi sono parole con un significato molto ampio, che poste in una previsione normativa ottengono il risultato di rendere la norma non solo poco determinata e poco tassativa, ma anche poco applicabile.

Pertanto se il legislatore decide di combattere le manifestazioni di intolleranza dovrà essere capace di conoscere e di tradurre in norme giuridiche la nuova realtà sociale; altrimenti si aggiungeranno nuovi ostacoli a una tutela che è già intrinsecamente limitata.

La disciplina legale del razzismo copre infatti soltanto una piccolissima parte del razzismo reale: tutte le legislazioni antirazziste finiscono per scontrarsi con forme implicite di razzismo, divenute nella realtà dominanti. Tali leggi, che come abbiamo visto, si caratterizzano per formule ampie e indefinite rischiano di funzionare solo nei casi di forme dichiarate, facilmente osservabili e decodificabili, proprie spesso di gruppi minoritari ed emarginati. Di conseguenza è ancora più importante che la lotta antirazzista si fondi su una precisa e scientifica definizione di discriminazione razziale; se invece le norme antirazziste si fondano su una definizione meno rigorosa saranno inapplicabili per il fatto stesso che si applicano a troppe situazioni sociali (dai banali atteggiamenti xenofobi all'apologia della violenza, dell'intolleranza). Una legge antirazzista potrà essere efficace solo se l'area coinvolta è più ristretta; al contrario, ovvero se essa aspira ad una applicabilità più ampia, diverrà inapplicabile.

Tenendo presente questo primo limite, si deve cercare di superare quanto più possibile la difficoltà predetta di riunire e tradurre giuridicamente i neo-razzismi e le neo-discriminazioni. Nelle norme esaminate la tensione verso una relativa novità e chiarezza del linguaggio appare davvero assente. L'insufficienza dell'intervento normativo nasce anche dai termini; rigore terminologico, significa rigore gnoseologico e chiarezza concettuale e dunque possibilità di applicazione. Termini quali razzismo, discriminazione sono termini "problema" che hanno una pluralità di significati, e per quanto difficile, è fondamentale attribuire ad essi un senso preciso in riferimento a varie situazioni empiriche. In altre parole, emanare una legge che punisca condotte quali la diffusione di idee basate sull'odio razziale o etnico (art. 1 primo comma lett. a), l'incitamento alla discriminazione (art. 1 terzo comma), la finalità di discriminazione (art. 3, primo comma) rischia di essere solo una posizione di principio concettualmente vuota, un atteggiamento di tipo morale, un intervento legislativo meramente simbolico capace di applicarsi a molte situazioni sociali e a nessuna in particolare. Ci si può chiedere allora se situazioni per nulla o male analizzate non implichino costi e rischi più alti di uno sforzo di lucidità che possa, nei limiti del possibile, tradurre in norma questi fenomeni. La carenza di rigore terminologico, la carenza di tassatività e determinatezza e di offensività provocano uno sganciamento dal Tatbestandstrafrecht. A livello di tecnica di tutela, abbiamo constatato come questo porti con sé il rischio di reprimere condotte non realmente offensive; e come, sul piano dell'oggettività giuridica norme così formulate provochino una spiritualizzazione del bene tutelato. La soglia di punibilità arretra e provoca paradossalmente una perdita di efficienza dell'azione penale.

7. In queste pagine abbiamo scelto di rimeditare il problema della discriminazione razziale e dell'attività di propaganda razzista attraverso un'analisi su un piano non meramente di principio rispetto alla legittimità delle norme in questione o rispetto alla possibilità di reprimere penalmente alcune forme di manifestazione del pensiero. Per questa ragione, infatti, insieme a un'esame della normativa esistente a livello internazionale e nazionale e a considerazioni di carattere generale e di politica criminale, abbiamo cercato di proporre argomentazioni per salvare la legittimità di queste disposizioni, che così come formulate e attualmente interpretate non possono che sembrare, a nostro avviso, costituzionalmente illegittime. Ed è con questa convizione, che seppure condivisibile si rivela radicale, ma anche con la consapevolezza dell'esistenza e della vigenza di questa normativa nel nostro diritto penale e quindi della scelta del nostro legislatore di punire condotte come quelle analizzate, che si sono avanzate due proposte. Innanzitutto quella di costruire la fattispecie secondo lo schema del pericolo concreto e in secondo luogo quella di individuare, attraverso un percorso interpretativo, il bene giuridico non più nell'ordine pubblico, ma nell'essere umano. Tuttavia, nonostante tale tentativo di interpretare le norme contro la discriminazione razziale alla luce dei principi di materialità, personalità e offensività resta forte il pericolo che esse possano essere utilizzate per punire i reati cd. di mera disobbedienza e numerosi restano pertanto i dubbi rispetto a questa legislazione. Molti sono, infatti, gli interrogativi che non senza ragione ci poniamo e che potranno essere, forse, di stimolo per ulteriori riflessioni: è conforme ai principi del nostro ordinamento reprimere penalmente la manifestazione del pensiero, facendo leva più sul suo contenuto che sulle sue modalità (conformi all'ordinamento democratico o non)? Non si rischia così di creare un diritto penale politico che punisce ciò che si è, non per ciò che si è fatto? Questa prospettiva prettamente politica non si allontana da quella giuridica, facendo rientrare tali disposizioni nella logica tanto discussa dell'amico/nemico? E ancora l'interpretazione sarà in grado di colmare l'evanescenza e l'astrattezza oggi causata dal tipo di bene giuridico e dalla tecnica di tutela scelta? Se devono esistere nel nostro ordinamento norme quali quelle esaminate, in sede di riforma sarebbe forse necessario, per evitare una estensione illiberale, un uso diverso dei termini, una tassativa e illuminante descrizione delle forme di offesa, una individuazione in una prospettiva "storica" del bene giuridico, una eventuale sua scomposizione (come il Codice penale tedesco §130 StGb) o l'utilizzo di strutturazioni a noi inusuali delle fattispecie quali l'esemplificazione di situazioni pericolose e da ultimo l'eliminazione della sanzionabilità, penale quantomeno, della mera diffusione di idee e dell'incitamento su sole basi di contenuto.

E infine il D.L. 122 mal si concilia con l'esigenza di attribuire al diritto penale un ambito di stretta necessità, aggravando quel grave problema che è l'ipertrofia della legge penale. Esistono norme nel nostro Codice Rocco, esiste la fattispecie dell'istigazione, esiste la possibilità di punire il tentativo; non era allora sufficiente la semplice introduzione di una aggravante per questo genere di condotte o comunque la sola repressione degli atti discriminatori?

E' interessante accennare allo schema di legge delega del nuovo codice penale, il quale, in conformità al modello adottato di progressione ascendente, dopo i reati contro la persona, i reati contro i rapporti civili-sociali-economici prevede i reati contro la comunità, all'interno dei quali troviamo la discriminazione razziale. Questi ultimi esprimono la attribuzione di una rilevanza giuridica diretta alle formazioni sociali quali proiezioni sovraindividuali e sintesi collettive di interessi pur sempre personali e, quindi, non in antitesi con questi: si tratta di beni somma di beni personali (come nel caso della salute, della sicurezza e dell'incolumità) o di beni mezzo per il soddisfacimento di beni personali (ambiente, economia, paesaggio, patrimonio artistico ecc..). Il titolo I del libro III è intitolato "Dei reati contro le genti" e prevede all'art. 96 dopo il reato di genocidio, quello di deportazione collettiva, il reato di discriminazione, consistente nell'imporre misure dirette a impedire a un gruppo nazionale etnico, razziale, o religioso la partecipazione paritaria alla vita politica, culturale, sociale ed economica. Nuovamente, quindi, la discriminazione non solo non viene, nello schema di legge delega, inserita nei reati contro l'essere umano, nei quali vengono invece ricompresi i delitti contro le libertà, contro l'integrità psichica, contro la riservatezza, contro la dignità umana (delitti di schiavitù, in materia di prostituzione, contro la identità genetica), ma essa viene in rilievo al pari del genocidio e della deportazione come delitto diretto contro interi gruppi di persone, uniti da vincolo nazionale, etnico, razziale, religioso. E ancora, infine, si vede come non si rimedia alla genericità e all'ambiguità tanto pericolosa dei termini utilizzando addirittura una parola come "misure".

A questi rilievi vorremmo aggiungere altre considerazioni.

Rispetto al possibile contrasto con l'art. 21 della Costituzione, se è vero che l'ordinamento democratico deve trovare mezzi di difesa contro i suoi nemici più radicali, è anche vero che esso non può tradire la sua natura e le sue premesse, assolutamente diverse da quelle di un regime autoritario. Non dovrebbe infatti sfuggire il dato storico in base al quale i pericoli per le libere istituzioni provengono anche da minoranze prevaricatrici. Occorre quindi guardarsi da un certo integralismo disposto a punire addirittura la diffusione in qualsiasi modo di idee razziste, perché altrimenti si rischia di passare da una democrazia protetta a una democrazia blindata. Il diritto penale non deve entrare in conflitto con l'autonomia della coscienza individuale, ma anzi deve disinteressarsi delle intenzioni, curandosi esclusivamente delle condotte in cui il pericolo di una lesione si manifesti come fatto. In conclusione, pare opportuno ribadire un dato ovvio e ripetuto, ossia che il diritto penale non può essere il principale strumento per la lotta contro le manifestazioni razziste. Esso invero non è che un elemento di una politica globale, che dovrebbe intervenire soltanto in presenza di determinate tipologie di offesa (criterio di proporzione) e qualora siano insufficienti le misure extrapenali (principio di sussidiarietà). Prima del diritto penale, concepito dunque come posterius, sembra necessario offrire alle potenziali vittime del razzismo la possibilità di agire. La possibilità del pensiero è il diritto dell'uomo per eccellenza; ma la tutela dei diritti dell'uomo avviene prima di tutto producendo "visibilità" per l'azione dei singoli soggetti, fornendo la possibilità a questi ultimi di essere soggetti dell'agire, creando regole del gioco in base a cui tutti possano "giocare". In una società multiculturale ciò comporta la formulazione, nonché l'accettazione di nuove regole e la protezione, attraverso il diritto, proprio dell'agire multiculturale.

"La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l'azione", scrive, con la precisione perspicace di sempre, Simone Weil. La tutela della libertà di pensiero non può essere soltanto la garanzia di uno stato mentale embrionale, ma deve al contrario diventare tutela delle azioni concepite, ideate da soggetti che si ritengono liberi, non già "assolutamente liberi". L'accettazione della condivisione del territorio, l'affermazione del principio di uguaglianza e della dignità umana rendono visibili i limiti della libertà individuale, li definiscono e ne tracciano la figura (nel senso geometrico del termine).

Al diritto in generale, non al diritto penale spetta il compito di ridefinire questi segni con chiarezza, ampliando o limitando l'area e le modalità di esercizio delle libertà, e in primo luogo della libertà di espressione che, come abbiamo già affermato, non può essere concepita come assoluta, ma neanche, forse, -in quanto ciò contrasta con la natura pluralista e democratica del nostro ordinamento-, essere oggetto di una repressione penale che dia rilievo più ai contenuti che alle modalità di esternazione.

Emanuela Fronza